Tutte le mattine ci svegliamo, ci alziamo, ci guardiamo allo specchio convinti di conoscere la persona che vediamo. Ma è così veramente?

A tal proposito penso: ”bastano i titoli raggiunti, i ruoli che assumo durante il giorno, il lavoro che svolgo a definire la mia identità, a dare una risposta esauriente alla domanda, chi sono io?”.

Lavorando da diversi anni a stretto contatto con le persone grazie alla mia professione di sociologa e counselor, mi sono resa conto nel tempo che gran parte delle nostre difficoltà e disagi nascono dal fatto che non sappiamo veramente chi siamo.

A mio avviso questo non può essere imputabile all’individuo singolo ma all’educazione promossa all’interno del nostro sistema culturale che manca di un aspetto fondamentale: la formazione cosiddetta pubblica, istituzionale, nell’attuale società ipermoderna, non prevede in alcun modo la conoscenza di sé, del proprio potenziale e delle proprie capacità. Acquisiamo, attraverso gli studi, un sapere tecnico, ma sapere chi siamo noi e cosa vogliamo spesso è più conseguenza del caso che non di un percorso pensato e creato sulla base di una saggezza. Per saggezza qui intendo il frutto maturo di un’esperienza che nel tempo non rimane identica a stessa ma si rinnova e si arricchisce seguendo l’evoluzione dell’uomo e, con lui, dell’intero universo.

Dove è andato a finire quel monito che è risuonato nelle coscienze per secoli attraverso l’oracolo di Delfi “Conosci te stesso!”. Se ci guardiamo intorno, come direbbe il sociologo Riesman, siamo talmente “eterodiretti”, fagocitati dalle sollecitazioni esterne, che abbiamo perso il focus del nostro spazio interiore e ci ritroviamo privi di quegli strumenti essenziali per riscoprirlo.

Cosa determina questo? Senza perderci in astratte speculazioni filosofiche, possiamo osservarlo in tanti giovani, ma non solo in loro: confusione, smarrimento, insoddisfazione. Si prende il diploma e non si sa dove andare, cosa fare oppure ci si ritrova, come diceva Dante, nel mezzo del cammin di nostra vita, e ci si rende conto che si è sbagliato tutto.

E questo non è un discorso che possiamo limitare solo all’aspetto lavorativo, professionale. Riguarda tutti i campi principali della vita, soprattutto le relazioni. Come possiamo avere relazioni solide, appaganti e felici se prima non l’abbiamo con noi stessi.

Per arrivare ad essere, esprimere se stessi in questa vita credo sia necessario formulare un nuovo progetto educativo che ci aiuti, innanzitutto, a liberarci da quei condizionamenti che non ci permettono di tirare fuori la nostra vera natura. Fin da quando siamo piccoli ci viene detto cosa fare e cosa non fare inculcandoci che ci sia qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. Prendere coscienza del fatto che siamo qui per vivere un’esperienza e che l’errore fa parte di ciò che impariamo, di ciò che abbiamo scelto e scegliamo d’imparare è il primo passo per liberarci da quelle catene che ci tengono imprigionati e andare verso l’espressione libera e creativa di noi stessi.

Questa è la base senza la quale difficilmente possiamo intraprendere un percorso d’amore verso la nostra vocazione in primis e poi verso ciò che ci circonda: persone, cose ed eventi. Lo scopo non è tanto quello di capire cos’è l’amore quanto quello di essere amore. Siamo amore quando sentiamo che, indipendentemente da quelle che sono le nostre aspettative e convinzioni, rimaniamo in uno stato di gratitudine e di comunione con l’esistenza.

In tal senso l’ascolto diventa uno strumento fondamentale per contattare e riconoscere le nostre emozioni, aspirazioni, stati d’animo e orientarli nella direzione che realmente corrisponde ai nostri desideri più profondi. Solo da questo luogo può nascere il rispetto per il nostro progetto di vita. Viviamo nella sofferenza e ci ammaliamo nel corpo e nella mente perché calpestiamo letteralmente ciò che ci fa battere il cuore.

Barattiamo la nostra felicità, la nostra realizzazione in cambio di una falsa sicurezza, pensando che ormai sia troppo tardi, che non siamo all’altezza o che non abbiamo abbastanza tempo, denaro, energia. E non serve dare la colpa alla società, agli altri, né tantomeno a noi stessi. Dobbiamo prenderci la responsabilità dello stato che viviamo.

Mettersi nella condizione di vittima è spesso la scelta più facile ma che non porta da nessuna parte perché in questo modo permettiamo a ciò che è esterno di agire un potere su di noi, sul nostro destino. Darsi l’opportunità di entrare in questi contenuti e accoglierli  dentro di sé è la via per scoprire il proprio talento e metterlo al servizio del mondo. Ecco allora la vera solidarietà. Una solidarietà che non è figlia di un dovere morale ma è la conseguenza spontanea del fatto che, trovando il nostro posto nel mondo, non abbiamo più alcun motivo di sentirci superiori o inferiori all’altro. Semplicemente siamo e, in quel nostro esserci, collaboriamo, cooperiamo in armonia con il tutto, rendendo la vita un banchetto da assaporare e gustare nelle sue infinite sfumature.

Così si esprime lo scrittore, poeta Derek Walcott nei suoi versi “Amore dopo amore” a riguardo:

Il giorno verrà
In cui gioioso
Accoglierai te stesso,
alla tua porta, nel tuo specchio
e ciascuno sorriderà all’altro accogliendolo,
e dirà: Siediti. Mangia.
Amerai di nuovo lo sconosciuto che eri tu stesso.
Dai vino. Dai pane. Restituisci il tuo cuore
A se stesso, allo sconosciuto che ti ha amato
Per tutta la tua vita, che hai ignorato
Per un altro, che ti conosce a memoria.
Tira giù dalla libreria le lettere,
le foto, i biglietti disperati,
strappa via la tua immagine come una pelle dallo specchio. Siediti. Fai della tua vita un banchetto.

Articolo di Virginia Vandini,

Sociologa, Supervisor-Trainer Counselor e Fondatrice di Henosis.

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